“Nella vita di una persona l’essenziale è il desiderio. Non c’è vita, senza desiderio. Invece noi ai figli lo togliamo. Per non rischiare, non poniamo limiti. E se poi, per un rifiuto, per un no, ci si sente in colpa, non si è autorevoli”.
Paolo Crepet, psichiatra
Qualche giorno fa sulla strada di casa mi sono imbattuta in un gruppetto di bambini, non avranno avuto più di otto anni. Giocavano al parchetto godendosi gli ultimi scampoli di sole di una domenica come tante, in una strada come tante. A pochi passi, i genitori, evidentemente amici fra loro, li seguivano e scherzavano. Un quadretto di un pomeriggio qualsiasi, se non fosse che a catturare la mia attenzione è stato un botta e risposta tra i bambini: l’oggetto del contendere era un monopattino. Morale della favola, in pochi istanti, un banale alterco tra bambini si è trasformato in uno scambio di parole parecchio colorite che avrebbero fatto impallidire la maggior parte degli adulti.
La maggior parte, ma non evidentemente i genitori dei bambini coinvolti che hanno iniziato a ridere divertiti tra loro. Perché se non stupisce più di tanto che i bambini possano riportare anche parolacce senza dare evidentemente loro troppo peso, quello che lascia qualche interrogativo aperto è che nessuno dei genitori dei bambini coinvolti abbia pensato di correggere e limitare quelle parole e quell’aggressività. Peggio ancora, hanno reagito con ilarità, come se quei comportamenti non fossero solamente leciti, ma tutto sommato anche divertenti.
La questione del “limite”, della presunta incapacità dei genitori di oggi di pronunciare con fermezza un “no” e di mantenere il punto, di esercitare il loro ruolo genitoriale di andare incontro casomai a capricci, musi lunghi e rimostranze, è balzata non solo numerose volte alla cronaca, ma sembra purtroppo sempre più attuale.
Una mancanza di autorevolezza (che è ben lungi dall’autoritarismo) porterebbe piano piano ad abdicare alle proprie responsabilità, a volte per troppa stanchezza e consci di andare incontro a qualche momento di tensione, altre volte per non “fare la parte dei cattivi”, perché educare significa perdere la voce, e non per alzarla a sproposito, ma per spiegare, per fare comprendere, per stare accanto, per guidare.
I genitori sembrerebbero sempre più in balìa di ragazzini che in casa regnano come piccoli sovrani, che dettano le regole, che sarebbero totalmente impreparati a ricevere un “no”, alla fatica per ottenere dei risultati, a un brutto voto (che quando poi arriva genera rabbia spropositata e la tendenza ormai sempre più comune a dare la colpa agli altri di ogni cosa). Totalmente inconsapevoli del fatto che il mondo non esiste per soddisfare i loro bisogni.
Se mi vuoi bene dimmi di no
Ho ripensato più volte all’episodio del parchetto, ed è stata la molla che mi ha fatto approfondire il tema con il libro di Giuliana Ukmar, medico neuropsichiatra, terapeuta della famiglia e della coppia “Se mi vuoi bene, dimmi di no.
La dottoressa, senza troppa teoria ma con esempi molto concreti, riporta moltissimi dei casi da lei in cura con problematiche apparentemente molto distanti tra loro arrivando poi a mettere in luce il fatto che i disagi di tutti questi ragazzi avessero “casualmente” la stessa origine, come si trattasse di un filo conduttore: l’onnipotenza causata da un’educazione o meglio da una “non educazione” totalmente lassista e priva di regole.
“Dai genitori hanno ricevuto la vita, ma non le istruzioni per l’uso. Hanno ricevuto una bella casa, pasti caldi, vestiti eleganti, buone scuole, ma tutto sommato non sanno goderne, non hanno entusiasmi, non hanno amici veri. La loro vita è una continua lotta contro due genitori per i quali a torto o a ragione, si sente trasparente e inessenziale. I ragazzi vogliono sapere come funziona il mondo e la famiglia deve essere la prima palestra, quella dove si allenano per non prendere, dopo, delle facciate troppo dolorose”.
“Facciate” che arriveranno, inevitabilmente dal mondo esterno, che non usa troppi convenevoli né i trattamenti di favore. Arriveranno al brutto voto nella versione di greco del liceo, ai primi rifiuti da parte di un compagno di scuola per cui ci si è presi una cotta, arriveranno alle prime delusioni lavorative, alle prime inevitabili frustrazioni che un adulto deve fronteggiare nella sua quotidianità. Alle prime volte insomma in cui la vita “ridimensiona” i loro desideri e la loro percezione di sé.
Come reagiranno di adulti di domani all’inevitabile durezza dell’impatto con il mondo senza gli strumenti per affrontarlo? Senza il senso critico di ammettere i propri errori e limiti, senza la spinta a migliorarsi, senza l’umiltà di mettersi in discussione? Ci potranno essere sempre mamma e papà a parare i colpi?
Giuliana Ukmar utilizza una metafora forte ma efficace: chiede di immaginare una stanza completamente buia nella quale non ci sono porte né spiragli di luce.
Questo è l’universo di un adolescente a cui non vengono posti dei limiti. Una regola da rispettare, un confine, rappresentano un appiglio, un porto sicuro, la certezza che esiste un genitore che sa qual è la strada giusta e si pone come guida.
Abdicare al ruolo genitoriale, lasciando in poche parole bambini e adolescenti in balia di se stessi (e della propria autodistruzione nei casi peggiori) li grava del peso enorme di scelte e decisioni assolutamente inadatte alla loro giovane vita. Quando il genitore invece si decide a tornare al posto che gli compete, ovvero il timone della barca, al bambino viene fatto un regalo dal valore inestimabile: gli viene restituita tutta la leggerezza e spensieratezza di cui ha bisogno, quella della sua età, perché c’è un genitore che è davvero in grado di fare la sua parte.
L’educazione è una fatica che nessuno è più disposto a fare
A questo proposito afferma Paolo Crepet, psichiatra e sociologo che da tempo sostiene che il problema dell’educazione si stia trasformando in una reale emergenza: “Se tuo padre e tua madre non ti hanno mai detto un no da quando sei nato, il primo no che ti dice un esterno non lo accetti. L’educazione è una fatica che nessuno è più disposto a fare: coinvolge i genitori, i nonni, gli educatori, anche quelli fuori scuola a incominciare dall’ambito sportivo. Tutto questo ha una ricaduta drammatica: è una generazione che non conosce più i sogni perché non sono state insegnate le passioni. A forza di dire di sì tutto diventa grigio, si perdono i colori. Tutto è anticipato rispetto a ieri, oggi a 13 anni fai la vita che una volta si faceva a 18. La società anticipa i suoi riti: prima maturi, prima diventi consumista. Oggi un ragazzino di 13 anni al telefonino si compra quello che vuole e questo crea una sproporzione, è una maturazione fittizia: non sei maturo perché sei su Facebook, ma se hai una tua autonomia. Oggi giustifichiamo tutto, non conosciamo i nostri figli, siamo abituati a non negare loro mai niente. Si consuma tutto troppo in fretta, anche la vita”.
Pensando alla genitorialità non si può certamente negare quanto sia un duro compito: lo ripetiamo spesso, e non per piaggeria nei confronti di chi ci legge, ma perché negarlo sarebbe difficile. La vita odierna si è fatta complessa, gli equilibri non sono semplici da mantenere, la frenesia è all’ordine del giorno e a differenza di qualche decennio fa i genitori si trovano spesso soli, sia in senso pratico, che peggio ancora morale. Un proverbio africano recita che “Per crescere un bambino serve un intero villaggio”. Quanta verità in poche parole. Per crescere un bambino ci sarebbe bisogno dell’energia e della passione di tutta la specie, genitori e non, degli umani tutti. Là fuori non sembra esserci tempo per tutto questo, e le famiglie ne risentono. Anzi, a dire la verità, la società sembra spesso parecchio infastidita dai bambini, in tanti casi, per dirla tutta sembra che diano addirittura fastidio, basti pensare alle occhiate che ricevono i genitori quando un neonato piange al ristorante o in aereo. Essere genitori di questi tempi anche per tutte queste ragioni non è una passeggiata.
Eppure, i ragazzi hanno tremendamente bisogno di noi, della nostra forza, del nostro entusiasmo. C’è sete di esempi, di condivisione, di esperienze vissute, di passioni. Di sogni, di racconti, di obiettivi da raggiungere, di mani impiastricciate di colore, di risate ad alta voce e di ginocchia sbucciate, di stelle da guardare, di piedi scalzi nella sabbia, di capelli spettinati dal vento.
C’è anche bisogno dei “no”, pronunciati per non perdersi. C’è bisogno che i genitori ritrovino il rispetto di se stessi, per insegnare ai figli a rispettare la vita.
La lettera che il tuo adolescente non può scriverti
Nel 2015 Gretchen Schmelzer, psicologa e blogger statunitense, decide di scrivere una lettera toccante “La lettera che il tuo adolescente non può scriverti” di cui riportiamo uno stralcio:
”Caro Genitore,
Questa è la lettera che vorrei poterti scrivere. Di questa battaglia in cui siamo, ora. Ne ho bisogno. Io ho bisogno di questa lotta. Non te lo posso dire perché non ho le parole per farlo e in ogni caso non avrebbe senso quello che direi. Ma, sappi, che ho bisogno di questa lotta. Ne ho bisogno disperatamente. Ora ho bisogno di odiarti, e ho bisogno che tu sopravviva a questo odio. Ho bisogno che tu sopravviva al mio odiarti, e al tuo odiare me. Ho bisogno di questo conflitto, anche se, nello stesso momento, pure io lo detesto.
Non importa nemmeno su cosa stiamo a litigare: sull’ora di rientro a casa, sui compiti, i panni sporchi, sulla mia stanza incasinata, sull’uscire, sul restare a casa, sull’andare via di casa, vivere in famiglia, fidanzato, fidanzata, sul non avere amici, o sull’avere cattivi amici. Non ha importanza. Ho bisogno di litigare con te su queste cose e ho bisogno che tu lo faccia con me. Ho disperatamente bisogno che tu mantenga l’altro capo della corda. Che lo mantieni forte mentre io strattono l’altro capo dalla mia parte, mentre cerco di trovare appigli e punti d’appoggio per vivere questo mondo nuovo in cui mi sento dentro.
Prima sapevo chi io fossi, chi fossi tu, chi fossimo noi. Ma ora, non lo so più. In questo momento sono alla ricerca dei miei confini e a volte riesco a trovarli solo quando tiro questa fune con te. Quando spingo tutto quello che conoscevo al suo limite. In quel momento io mi sento di esistere, e per un minuto riesco a respirare. E lo so che ti manca quel dolcissimo bambino che ero. Lo so, perché manca quel bambino manca anche a me e a volte questa nostalgia è quello che rende tutto così doloroso in questo momento. Io ho bisogno di questa lotta e ho bisogno di vedere che i miei sentimenti, non importa quanto tremendi o esagerati siano, non distruggeranno nè me e né te. Ho bisogno che tu mi ami anche quando sono il peggiore, anche quando può sembrare che io non ti ami. In questo momento ho bisogno che tu ami te stesso e me, che tu ci ami entrambi e per conto di tutti e due. Lo so che fa schifo essere antipatici e avere l’etichetta di “ragazzo cattivo”.
Anche io provo la stessa cosa dentro, ma ho bisogno che tu la tolleri, e che ti faccia aiutare da altri adulti a farlo. Perché io non posso farlo in questo momento. Se vuoi stare insieme ai tuoi amici adulti e fare un “gruppo di auto-mutuo-aiuto-per-sopravvivere-al-tuo-adolescente”, fa’ pure. O parlare di me alle mie spalle, non mi importa. Solo ti chiedo di non rinunciare a me, di non rinunciare a questo conflitto. Io ne ho bisogno.
Per favore, resta dall’altro capo della fune. Sappi che stai facendo il lavoro più importante che qualcuno possa mai fare per me in questo momento”.
Quindi, rimaniamo dall’altro capo della fune, anche quando la fatica si fa sentire, anche quando cedere sembra la strada più semplice da percorrere.
Non è facile, ma è il regalo più grande che possiamo fare ai nostri figli. E un giorno, anche lontano, dal profondo del cuore ce ne saranno grati.
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