L’infertilità è una esperienza molto complessa e dolorosa che spesso non viene compresa appieno da chi non l’ha vissuta sulla propria pelle.
Freud diceva che la generatività è la volontà dell’individuo di sopravvivere alla morte.
Per questo motivo molte coppie infertili decidono di affidarsi alla procreazione medicalmente assistita (PMA) per darsi l’opportunità di diventare genitori grazie all’aiuto della scienza. Il percorso però non è facile.
Le percentuali indicate nel registro nazionale della PMA dell’Istituto Superiore di Sanità ci dicono che nel 2017, nelle pazienti con età inferiore ai 34 anni la probabilità di ottenere una gravidanza è stata del 12,4% sui cicli iniziati e del 13,7% sulle inseminazioni effettuate, mentre nelle pazienti con più di 42 anni la percentuale scende rispettivamente al 3,8% ed al 4,3%.
Da un punto di vista psicologico chi è infertile ha quindi vari lutti da superare.
Il primo è quello della propria infertilità che fa sentire questi pazienti inadeguati, soli e diversi rispetto a chi riesce ad avere figli in maniera naturale.
Un secondo problema si presenta quando la coppia viene a scoprire che l’unico modo per ottenere una gravidanza è attraverso la fecondazione eterologa con donazione di uno o di entrambi i gameti.
In questo caso, infatti, oltre al lutto per l’infertilità si unisce il lutto biologico dovuto all’impossibilità di avere un legame genetico con il proprio figlio.
Come si può affrontare quindi un’esperienza così difficile?
La prima cosa da fare è ricordare ai pazienti che si può essere generativi anche nell’infertilità. Si può affrontare questo percorso come una crescita interiore che, anche se può sembrare assurdo, può essere profondamente arricchente indipendentemente dal risultato che si riuscirà ad ottenere.
Si può quindi affrontare questo viaggio con resilienza cercando di reagire in maniera positiva ad un evento che per sua natura si dimostra profondamente stressante.
Fondamentale in questi casi è cercare di parlarne con chi sta vivendo la stessa esperienza senza sentirsi in colpa o avere vergogna per quello che si sta vivendo perché l’infertilità è una condizione di cui non si è responsabili.
In questi casi un percorso psicologico risulta fondamentale proprio per tirare fuori tutte le paure e far si che si arrivi alla scelta finale con consapevolezza e serenità.
Come psicoterapeuta che si occupa di sostenere le coppie infertili, quando incontro una coppia che ha dei timori sulla scelta di una fecondazione eterologa, la prima cosa che faccio è quella di dirgli che il mio compito non è quello di convincerli a scegliere una tecnica piuttosto che un altra, ma quello di analizzare le loro resistenze, le loro paure per fare in modo che siano davvero consapevoli e artefici della propria scelta.
I dubbi delle coppie che si preparano ad affrontare un percorso di fecondazione eterologa
I dubbi che le coppie mi riportano in stanza di terapia sono i seguenti:
La paura di non sentire proprio il bambino
In questi casi cerco di ampliare la visione della coppia spiegando che la genitorialità è relazionale e non genetica e che l’amore verso un’altra persona non è influenzato dai geni. Ad esempio si ama il proprio compagno o marito eppure con lui non si ha un legame biologico.
La paura che il bambino non ci somigli.
Questo timore è molto comune ma se ci pensiamo bene anche chi è nato senza fare fecondazione assistita può non somigliare ai propri genitori.
Oltretutto è bene introdurre il concetto di epigenetica che non è altro che “la trasmissione di tratti e di comportamenti senza cambiamenti della sequenza genica” (Di Mauro 2017).
In pratica quello che si passa al figlio nato da eterologa sono i nostri sistemi di valori, i miti familiari, il modo di cucinare, il modo di parlare che fanno parte del nostro sistema familiare ecco perché quel bambino alla fine in qualche modo ci somiglierà.
Oltretutto io credo che sia importante dare amore al proprio figlio poi se ci somiglierà, oppure no, non è importante perché la condivisione delle proprie diversità non potrà che essere un’esperienza valorizzante sia per i genitori che per i figli.
La paura dei pregiudizio che il figlio potrebbe subire perché nato da donazione di gameti
Quando in stanza di terapia mi riportano questo timore cerco di far ragionare la coppia su un fatto concreto.
Tutti noi da bambini, ma anche da grandi, subiamo dei pregiudizi. Noi viviamo nell’epoca del protezionismo dei figli ma la cosa più importante che si può insegnare a un figlio è proprio quella di dargli gli strumenti per fronteggiare le difficoltà che si subiscono naturalmente nel percorso di crescita di ciascuno di noi.
La paura se rivelare o meno al figlio com’è nato
Questo è un timore molto ricorrente ma la letteratura è molto chiara sui segreti familiari. I figli infatti riescono a sentire anche il non detto e i segreti vengono percepiti come qualcosa di maggiormente terribile di quello che sono.
Nella mia pratica clinica ho incontrato spesso famiglie con segreti tramandati di generazione in generazione che però venivano percepiti attraverso l’espressione di un disagio di uno o più membri del sistema familiare che si veniva a interrompere proprio quando il segreto veniva rivelato.
Poco tempo fa ho intervistato una ragazza nata da fecondazione eterologa negli anni ’80 la quale mi diceva che il problema non era stato sapere di essere nata con donazione di gameti ma di averlo saputo a 21 anni.
Già dai 3 anni infatti si possono cominciare a raccontare delle favole ai propri figli che percepiranno che la loro nascita è avvenuta per un gesto di amore e soprattutto che la loro nascita non è un’esperienza della quale vergognarsi.
Oltretutto non rivelare ai propri figli come sono venuti al mondo gli toglierebbe dalla possibilità di imparare una cosa fondamentale: nella vita possono accadere delle cose terribili, come l’infertilità, ma che con la capacità di reagire in maniera resiliente si possono superare molte difficoltà e i sogni possono avverarsi.
Per tutte queste ragioni non rivelare questo aspetto toglierebbe al figlio la possibilità di apprendere un insegnamento molto positivo.
Ecco non vi sembra che anche un’esperienza di infertilità possa essere trasformata in qualcosa di fertile?
Nella vita infatti possono accaderci cose davvero difficili ma sta a noi decidere se utilizzare queste esperienze in modo costruttivo o distruttivo.
Si può quindi amare un figlio al di là del legame genetico? La risposta è si.
Non è infatti il legame genetico a definire la genitorialità ma è la relazione a definire i legami tra le persone.
La genitorialità è infatti una condizione psichica di maturità che ci predispone ad amare e a prenderci cura di un altro essere umano senza volere niente in cambio e questa capacità è indipendente dal fatto che ci sia un legame genetico con il proprio figlio e si sviluppa soltanto se si è lavorato sulle resistenze che una tecnica come la procreazione medicalmente assistita comporta.
Dott.ssa Valentina Berruti Psicologa e Psicoterapeuta del centro B-Woman per la salute della Donna